Il futuro immaginato da Mark Weiser non è poi così lontano da ciò che è possibile trovare sul mercato odierno.
Verso la metà dello scorso anno per esempio, navigando in rete, era già possibile imbattersi in un progetto portato avanti da Microsoft, allora chiamato Natal Project, che prometteva di implementare le potenzialità della console X-Box, con un sistema di grado di sostituire il comune joypad wireless, che ha contribuito a rendere famoso il prodotto della casa americana. Il sistema, che prevedeva l’eliminazione del controller, proponeva un’interazione più diretta con l’utente.
La X-Box Kinect, questo è il nome con cui il sistema è stato presentato al pubblico, è uscita qualche mese fa, ma, in casa Gates, hanno pensato bene, per motivi probabilmente legati alle strategie di promozione del prodotto, di non scoprirne da subito le reali potenzialità.
I video che illustravano il concept, non solo mostravano la possibilità di controllare le interfacce e la loro applicazione esclusivamente con l’uso del corpo, senza mediatori, il che è già di per se profondamente innovativo, ma promuovevano una sorta di intelligenza della console, che non si limita a capire come l’utente si muove di fronte allo schermo, ma è addirittura in grado di stabilirne l’identità. Un risultato tanto sorprendente non è frutto di una tecnologia così aliena come si può pensare : – Diamogli occhi ed orecchie-, deve aver suggerito qualcuno.
Si riduce tutto a questo. Qualche telecamera ed un microfono molto sensibile.
Quando la console sente una voce, inizia una rapida ricerca, con l’intento di confrontarne le caratteristiche con una serie di voci a lei note, acquisite durante la sua attività. Le telecamere scansionano le aree del volto dell’utente corrispondenti a bocca, occhi e sopracciglia, alla ricerca di uno schema espressivo. Il risultato:
– “Buongiorno Marco, mi sembri di buon umore oggi….”
Qualche anno fa la casa automobilistica Toyota ha presentato una versione dell’ utilitaria Yaris priva di chiavi.
La centralina dell’auto interagisce mediante bluetooth con una scheda, grande più o meno quanto un bancomat, che il proprietario può comodamente portare nella tasca dei pantaloni, o nel portafogli. Quando la periferica viene rilevata all’interno di un certo raggio, la vettura diviene accessibile ed utilizzabile.
Pare proprio che le tecnologie semplici ma sfruttate con intelligenza, insomma, giochino un ruolo realmente importante nell’ottica del sistema nel quale sono inserite.
I servizi descritti da Weiss operano in una condizione di costante comunicazione ed interazione gli uni con gli altri, rendendo le informazioni accessibili da più utenti che, sfruttando la rete, aumentano in maniera esponenziale l’attività del sistema.
La discussione di gruppo ha soprattutto messo in luce gli aspetti morali di una condivisione su larga scala di qualsiasi informazione. Si distacca dall’essere un giudizio sull’utilità o meno degli esempi portati da Weiss, ma vuole essere piuttosto una riflessione sulle dinamiche comunicative e sulla riservatezza dei dati messi in rete e condivisi che perdono la fisicità alla quale, per sua natura, l’uomo è legato.
L’utilizzo massivo di una qualsiasi tecnologia deve anche considerare le conseguenze sociali che questa comporta. Significa che le modalità di utilizzo, gli scopi e la reale esigenza di un sistema devono necessariamente essere affidati all’intelligenza ed al buonsenso della società o dei contesti alla quale questo viene offerto.
Gli aspetti legati alla grossa quantità di dati, anche personali, disponibili in rete, considerati anche da Weiss, mettono in luce i problemi della loro salvaguardia.
Ultimamente ha avuto forte rilevanza mediatica il caso riguardante l’applicazione del browser Firefox chiamata Firesheep (http://www.repubblica.it/tecnologia/2010/11/01/news/firesheep-8501951/), che permette di tracciare il percorso dei cookies dando la possibilità di recuperare password, non solo di reti Wi-Fi, ma di qualsiasi social network o di molti siti (come Amazon o Google), rendendo accessibili le informazioni ad essi correlati.
Oltre a questo, la distribuzione pubblica di informazioni concorre a creare un profilo completo di una persona, il che può avere lati positivi e negativi (si consideri per esempio la rilevanza che possono avere informazioni riguardanti aspetti negativi per un politico).
In un recente articolo del settimanale “il Venerdì di Repubblica” (19/11/2010 ”E-dentità, quanto costa rifarsi una reputazione distrutta dal web” di Jaime D’Alessandro), viene analizzato questo problema, sottolineando la nuova esigenza degli utenti di avere cura di ciò che può essere considerata “l’ opinione” della rete. Questa situazione ha generato una nuova figura lavorativa, nata negli Stati Uniti, che si occupa di migliorare tale opinione a proposito dei propri clienti, non immettendo nel web notizie positive fasulle (il che sarebbe illegale), bensì diffondendo (tramite blog, forum e social network), in maniera massiccia, notizie (vere) positive sull’utente.
In conclusione, tenendo conto dei miglioramenti che andranno apportati alla sicurezza delle informazioni, se le attività e gli sviluppi legati alle tecnologie non sostituiranno il vivere quotidiano, ma diventeranno un supporto ad esso, si avrà un sicuro contributo ad un miglioramento della vita comune.
Dario Budroni, Emanuel Serra, Nicola Vargiu.
Commento: Myth of the Design Process – August de los Reyes
L’analisi del testo ha portato a sottolineare il dualismo tra i processi
progettuali definiti come “Big D” e “little d”.
Il cosiddetto fattore di rischio, che significa la perdita della certezza di
un risultato “più sicuro”, è il vero centro della discussione.
Quanto conviene innovare?
Sicuramente il nostro punto di vista è legato principalmente al
design, ci teniamo a rimarcare la linea che separa la parte di ricerca
dalla componente creativa del progetto.
L’ accettazione del fattore di rischio comporta in se anche la
possibilità di arrivare a soluzioni di natura innovativa, lungimirante,
orientate verso il futuro, senza che questo vada a discapito
dell’obbiettivo.
D’altro canto è accettabile pensare che i processi Little-d portino a
soluzioni che possono avere una durata di vita relativa, poiché la
stessa necessità rischia di ripresentarsi poco tempo dopo, esigente
d’innovazione.
In questo senso, acquisisce importanza la componente di ricerca,
intesa come il contesto di lavoro legato all’analisi delle possibilità
tecnologiche.
Riteniamo, in conclusione, che una buona ricerca potrebbe fornire la
possibilità di una evoluzione del processo little-d, solo partendo dalla
“tradizione” insomma, intesa come abitudine culturale, si può arrivare
all’innovazione.
D. Budroni, E. Serra, N. Vargiu.